Qualche anno fa, mi sono avvicinato al mondo delle criptovalute, solo perché ho avuto la fortuna di credere in un amico che “ha fatto” del trading la sua professione, con risultati eccelsi.
Stampa e televisioni hanno dato risalto all’interesse da parte dell’opinione pubblica di questo nuovo fenomeno (di investimento o speculativo?) e sempre di più sentiamo parlare di:
Criptovaluta/Criptocurrency: valuta virtuale che, secondo la definizione di Banca d’Italia, costituisce una rappresentazione digitale di valore ed è utilizzata come mezzo di scambio o detenuta a scopo di investimento. Le criptovalute (Bitcoin, Ripple, Ethereum, Cardano, Dogcoin, ecc.) possono essere trasferite, conservate o negoziate elettronicamente. Le criptovalute sono monete digitali decentralizzate, create su internet e slegate dalle comuni valute a corso legale come euro o dollaro. Si tratta dunque di “rappresentazioni digitali di valore” non sottoposte all’emissione, alla garanzia o al controllo da parte di banche centrali o autorità pubbliche. Sono, infatti, emesse da emittenti privati che si servono di software altamente specializzati e, generalmente, di tecnologie blockchain.
Blockchain: “catena di blocchi”, è un paradigma tecnologico che permette di sviluppare applicazioni “Cryptocurrency-like” delle quali il Bitcoin rappresenta una delle prime applicazioni concrete. Il nome deriva dalla sua natura distribuita: ogni nodo del network svolge un ruolo nella verifica delle informazioni, inviandole al successivo e fissando le informazioni e transazioni su cui tutti i nodi concordano in una catena composta da blocchi, blockchain appunto, condivisa ed immutabile. Il modello si basa sulla combinazione tra firma digitale e marca temporale (timestamp): la prima garantisce che mittente e destinatario di un qualsiasi tipo di messaggio (ad esempio una transazione monetaria) siano identificati in modo certo, il secondo permette che un insieme di messaggi, validato con la marca temporale da parte di un nodo scelto casualmente da un robusto modello matematico, venga comunicato e scritto nel registro di tutti gli altri nodi della rete e reso irreversibile. Si tratta di un vero e proprio registro pubblico e condiviso, un libro contabile che si aggiorna automaticamente ed identicamente su ciascuno dei nodi che partecipano alla rete. Le transazioni che avvengono all’interno della rete vengono così registrate e validate eliminando in definitiva la necessità di terze parti “fidate”, come avviene per le transazioni ordinarie, da parte degli Istituti di credito.
E-wallet: portafogli virtuali personali, all’interno dei quali vengono gestite (comprate, scambiate, trasferite) le criptovalute.
Bitcoin: è la moneta virtuale più conosciuta, creata nel 2009 da uno o più hacker con lo pseudonimo Satoshi Nakamoto. Rispetto alle altre valute ordinarie il Bitcoin non ha dietro una Banca centrale che distribuisce nuova moneta, ma si basa fondamentalmente su due principi: un network di nodi, cioè di pc, che la gestiscono in modalità distribuita, peer-to-peer; e l’uso di una forte crittografica per validare e rendere sicure le transazioni. Può essere acquistato solo se titolari di un e-wallet.
Ma dobbiamo temere questo nuovo fenomeno?
Ad avviso di chi scrive, alla base di tutto c’è la predisposizione al rischio. E’ indubbio il fatto che trattandosi di denaro virtuale non sottoposto a controllo delle Banche Centrali, ha una fluttuazione atipica: si consideri che il Bitcoin, dalla sua creazione avvenuta nel 2009 a valore 0 $, ha toccato nel 2017 quasi 20.000,00 $, per poi scendere sino a 9.000,00 $ nel 2019, per raggiungere i 64.000,00 $ agli inizi del 2021 ed ora stabilizzarsi attorno ai 35.000,00 $.
È denaro virtuale: può essere rubato (per esempio da un attacco hacker) o perso (malfunzionamento dell’hard disk del pc). Basta un tweet di qualche addetto ai lavori o di qualche facoltoso investitore per far crollare o far risalire il prezzo e lo scambio sulle piattaforme.
Il governo cinese e quello della Corea del Sud, per esempio, hanno proibito alle banche di usare Bitcoin per i loro scambi, per prevenire i rischi di riciclaggio di denaro e difendere la stabilità finanziaria, decisione più politica che finanziaria, anche perché non ha posto alcuna restrizione per gli scambi tra privati.
L’Unione Europea, con la Direttiva Ue 2018/843 del Parlamento Europeo ha riconosciuto ufficialmente le criptocurrency, stabilendo però che tutti i provider di servizi di portafoglio digitale dovranno applicare controlli sistematici sulla propria clientela per porre fine al regime di anonimato associato alle valute virtuali.
La Fed, invece, vede vantaggi a lungo termine, per quanto riguarda l’innovazione di un sistema di pagamento più veloce, più efficiente e più sicuro, ma anche rischi, derivanti dalla mancanza di un valore intrinseco delle criptovalute.
Nelle decisioni delle singole Autorità nazionali non rivedete il riflesso di vecchi concetti politici? La propensione al rischio di ciascuno di noi, quale delle teorie di cui sopra intende sposare?
Come in molti altri paesi del mondo ci sono ancora un bel po’ di incertezze, sia per le tassazioni che per le regolamentazioni: ma qualche passo è stato fatto anche perché iniziano a circolare carte di credito per transazioni con criptovalute e numerosi esercizi commerciali accettano bitcoin, oltre al fatto che alcuni gruppi assicurativi iniziano ad assicurare, appunto, i rischi derivanti dal possesso di queste criptovalute.
La prima cosa da dire sull’Italia è che la situazione è poco chiara e si presta a diverse interpretazioni, come in molti altri paesi del mondo. Questo riguarda anche la tassazione: in Italia la posizione dell’Agenzia delle entrate sulle criptovalute è definita unicamente dalla Risoluzione n. 72 del 2016, nella quale le cripto vengono equiparate alle valute estere.
Questa equiparazione non fuga i dubbi di fondo, se non altro perché, le valute con corso legale, sono immediatamente utilizzabili, a differenza delle criptovalute: avere dieci bitcoin su un portafogli virtuale non significa possedere l’equivalente in euro di dieci bitcoin, perché prima bisogna trovare qualcuno disposto ad accettare quell’equivalente.
Se si possiede un milione di dollari, poi, si è ragionevolmente sicuri che tra due mesi il loro valore sarà pressappoco uguale: cosa che non si può affatto dire per le criptovalute, che oscillano moltissimo in poco tempo. Se un’impresa avesse comprato un bitcoin nell’aprile del 2017, e avesse dovuto chiudere il bilancio a dicembre, avrebbe dovuto pagare tasse su un guadagno di quasi il 2000%, per poi vedere il proprio capitale perdere due terzi del suo valore qualche mese dopo.
Anche per le persone che investono privatamente in criptovalute, la situazione non è molto chiara. In teoria, esattamente come possedere valute straniere, possedere criptovalute non è considerata un’operazione speculativa che genera reddito, e quindi le plusvalenze non sono tassate. Per le valute straniere è però prevista una soglia: se si possiede per almeno sette giorni consecutivi una somma superiore a 51mila euro, non è più considerato una normale detenzione di valute straniere ma un’attività speculativa, a cui viene quindi applicata un’aliquota del 26 per cento.
Questa tassa in teoria si applica anche alle criptovalute, ma essendoci un bilancio da chiudere va pagata solo nel momento in cui eventualmente si ottiene la plusvalenza, cioè per esempio vendendo i bitcoin in cambio di euro.
C’è però un ulteriore problema: se si possiedono dei bitcoin in un portafogli digitale, in un sito con sede all’estero – come Coinbase, Binance o gli altri più diffusi – in realtà chi li detiene è il sito, dal quale possiamo prelevarli (in teoria) quando vogliamo. È quindi un capitale investito all’estero, indipendentemente dal suo ammontare: per questo andrebbe indicato nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, riservato al monitoraggio dei capitali detenuti all’estero.
Vero, quindi, che non esistono disposizioni fiscali specifiche in materia di criptovalute, ma esistono norme di principio che identificano le tipologie di introiti sui quali occorre pagare le imposte sui redditi, incluse quelle dovute, appunto, per aver maturato delle plusvalenze. Ora, nella normativa italiana non c’è una norma che dica esplicitamente “sulle plusvalenze maturate con le criptovalute si pagano le imposte sui redditi”. Tuttavia, secondo il fisco italiano, in caso di plusvalenze ottenute da bitcoin o altre criptovalute, l’imposta sulle plusvalenze andrebbe pagata.
Solo che per arrivare a questa conclusione il fisco parte da una premessa fondamentale: e cioè, che le criptovalute debbano essere considerate alla stessa stregua di valute estere. Questa tesi del fisco è stata sostenuta ed illustrata essenzialmente in due documenti interpretativi (la già citata risoluzione della Direz. Centr. AdE 72/E/2016 e la risposta ad interpello n. 956-39/2018 della Direz. Reg. Lombardia) cui molti operatori, soprattutto per prudenza o per timore reverenziale verso l’Agenzia delle entrate, tendono ad adeguarsi. La premessa su cui questo ragionamento si regge però non è condivisibile: le criptovalute, infatti, non possono essere assimilate alle valute estere. E non sono solo io a dirlo, ma anche la Corte di Giustizia UE con una sentenza cruciale, che ormai chiunque si occupi di criptovalute conosce: la sentenza Hedqvist, in causa C-264/14, del 22.10.2015. La Corte di Giustizia in particolare afferma in modo chiaro e netto che le criptovalute vanno considerate come semplici mezzi di pagamento e non possono essere equiparate a valute “legali”.
Non bisogna sottacere il fatto che possedere criptovalute e non denunciarne il quantum e l’eventuale utile derivante dalla compravendita, potenzialmente, sottolineo potenzialmente, potrebbe avere profili di rischio. Essenzialmente si rischiano sanzioni pecuniarie. Per la mancata compilazione del quadro RW, dove vanno inserite le attività finanziarie e gli investimenti esteri, è prevista una sanzione fissa di 258 euro a patto che l’omissione venga sanata entro un termine massimo di 90 giorni dal termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi. Se però si sfora questo termine si passa a sanzioni molto più gravi, perché vengono comminate sanzioni che vano dal 3 al 15% degli importi non dichiarati. Per di più queste percentuali sono raddoppiate se le attività estere detenute possono essere localizzate in Paesi in black list, nel qual caso scatterebbe anche la presunzione che tutte le somme non dichiarate sono anche frutto di evasione fiscale.
Nell’ordinamento esiste una norma che mira a impedire che un contribuente subisca l’imposizione di sanzioni nel caso in cui commetta violazioni di norme fiscali dovute a gravi incertezze interpretative. L’art. 10 comma 2 dello Statuto del contribuente (L. n. 212/2000), infatti, stabilisce che non devono essere erogate sanzioni quando una certa violazione dipende da quelle che vengono definite “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”. E non si può negare che nel settore delle criptovalute le obiettive condizioni di incertezza ancora oggi sussistano visto che, sebbene il fenomeno esista ormai da più di un decennio, in Italia, in materia di fisco e tributi, si naviga a vista; a differenza che negli Stati Uniti, ad esempio, dove l’odierno Segretario del Tesoro Janet Yellen ha intenzione di introdurre un’imposta che mira a colpire le criptovalute, indipendentemente dalla plusvalenza.
Quindi, dobbiamo avere paura? Dipende, in questa incertezza, dalla propensione al rischio!