La specificazione è un istituto giuridico antichissimo, risalente al diritto romano, giunto fino ai nostri giorni sostanzialmente immutato. È un modo di acquisto della proprietà a titolo originario che ha ad oggetto la materia adoperata da chi non ne è proprietario per formare una cosa nuova. L’esempio di scuola è quello dello scultore che crea una statua scolpendo un blocco di marmo che non gli appartiene.
A chi appartiene la statua in questo caso?
Per l’art. 940 cod. civ. chi ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera. In quest’ultimo caso la cosa spetta al proprietario della materia, il quale deve pagare il prezzo della mano d’opera.
La questione è tutt’altro che puramente accademica e in passato l’istituto della specificazione è stato applicato per dirimere una controversia che ha visto contrapposti un affermato artista, una sua facoltosa amica e una famosa galleria d’arte contemporanea.
Lucrezia De Domizio Durini procura a Joseph Beuys, suo ospite a Bolognano, cinque vasche di pietra che i contadini abruzzesi utilizzavano da tempo immemore per la decantazione dell’olio d’oliva.
Beuys le riempie d’olio, le copre con una lastra di arenaria e le trasforma in un capolavoro dell’arte contemporanea, che poi concede in comodato al Castello di Rivoli per la loro esposizione.
Anche la disposizione delle vasche nello spazio espositivo, appositamente scelta dallo stesso artista, contribuisce a dare loro una diversa individualità, dovuta al contrasto tra le ricche decorazioni del castello e l’umiltà delle vasche di pietra.
Il problema, a questo punto, è se la proprietà dell’opera spetti a Lucrezia De Domizio Durini che ha fornito la materia, il “corpus mechanicum”, o all’artista che, con la sua originale opera creativa, il “corpus mysticum”, le ha trasformate in un “aliquid novum”, avente una propria individualità economico sociale completamente diversa rispetto alla materia originaria.
La questione è tutt’altro che puramente accademica perchè, tra citazioni, interventi, riconvenzionali e sequestri, la lite tra la nobildonna, gli eredi dell’artista e la galleria d’arte per la proprietà dell’opera giunge sino alla Suprema Corte, per la quale, tuttavia, l’opera creativa non poteva dirsi realizzata: la sola disposizione della cosa in un ambiente nuovo, per quanto originale possa ritenersi una tale operazione, non concretizza la trasformazione della materia in un oggetto avente una propria distinta individualità economico-sociale.
Nell’opera “Olivestone” la materia non è stata trasformata, ma solo disposta in un modo particolare, per raggiungere un certo effetto, il che, sempre per la Corte di Cassazione, è un fenomeno ben diverso dall’acquisizione nel mondo fisico di una nuova cosa.