In occasione del suo intervento all’ultimo Salone del libro di Torino hanno destato molto scalpore le affermazioni di Susanna Tamaro, famosa autrice del best seller “Và dove ti porta il cuore” (Baldini & Castoldi, 1994), secondo la quale, in estrema sintesi, la lettura obbligata de “I Malavoglia” a scuola è noiosa, antiquata, allontana i più giovani dai libri e meglio sarebbe inserire in programma letture più moderne e più vicine alle esperienze degli studenti.
Non era difficile prevedere il gran clamore che ne è seguito e neppure la successiva, parziale ritrattazione della scrittrice ha placato le reazioni.
A dirigere la difesa del grande romanzo verista, neanche a dirlo, è stata la Fondazione Verga che, pur riconoscendo la necessità di adeguare l’insegnamento della letteratura ai tempi correnti, dedicando maggiore spazio alla letteratura contemporanea, ritiene che non si possa rinunciare all’opera di Verga, alle domande di senso, a quella sensazione di rispecchiamento che gli psicologi additano come passaggio fondamentale per la crescita dell’io che solo dalla lettura dei grandi classici possono scaturire.
Offre la sponda a stretto giro l’Accademia della crusca: se Susanna Tamaro si annoia leggendo “I Malavoglia” il problema è suo perché si tratta, per riconoscimento universale, di un romanzo che sta tra i grandi capolavori della narrativa europea dell’Ottocento e di un’attualità ancora fortissima; una straordinaria invenzione linguistica, tra il poetico e il realistico, ritratto epico e tragico di un’Italia umile e onesta, che ha cercato di affermarsi con la fatica del lavoro e ha trovato nello Stato un potere lontano e sordo.
Noi Avvocati, invece, siamo perfettamente d’accordo con Susanna Tamaro e chiediamo a gran voce di bandire “I Malavoglia” da tutte le scuole di ogni ordine e grado e di vietarne la lettura fino almeno al raggiungimento della maggiore età. Non solo anzi, perchè, già che ci siamo, chiediamo che lo stesso trattamento sia riservato anche a “I Promessi Sposi”. E se proprio non si può, per via della strenua opposizione dei poteri forti letterari e didattici, ebbene, in estremo subordine, chiediamo di censurare i due romanzi, tagliandone le parti più scabrose.
Non lo facciamo per allontanare la noia dagli studenti; non abbiamo neppure interesse alla sostituzione dei predetti romanzi con altri di nostro gradimento; di letteratura, del suo insegnamento e di didattica o pedagogia in generale non ci curiamo affatto.
Vogliamo invece impedire che anche le prossime generazioni di studenti si pongano le stesse domande di senso che hanno assillato quelle precedenti e che nel loro immaginario si imprima ancora il medesimo, falso e vergognoso ritratto che da troppi decenni le opere di Verga e Manzoni offrono dell’avvocato.
L’Azzeccagarbugli è ormai proverbiale e persino chi non ha mai letto il romanzo o se l’è ormai scordato sa perfettamente che l’avvocato manzoniano è arrogante con i deboli e debole con i forti; è subdolo e viscido; utilizza la sua arte per “ingarbugliare” i fatti, confondere i giudici e raggirare il cliente; la sua condotta è sempre sul filo del conflitto di interessi e se gli confidi un segreto c’è il fondato pericolo che lo rivenda all’avversario per pochi spiccoli in più.
L’Avv. Scipioni, il legale dei Malavoglia, non è molto diverso, anche se tra l’uno e l’altro ci passano più due secoli e duemila chilometri: lascia i clienti intontiti e sopraffatti da tutte le sue chiacchiere; suborna i testimoni e stravolge i fatti, senza informare adeguatamente il cliente delle possibili conseguenze.
Ora se ben due autori di tanta levatura hanno descritto l’avvocato in modo così simile si può anche riconoscere che, probabilmente, ai loro tempi, l’avvocato intrattenesse i rapporti con i clienti e con i giudici in maniera piuttosto disinvolta e che, se un codice deontologico c’era, i suoi canoni erano parecchio sfilacciati.
Tuttavia ne è ormai trascorso di tempo e di Azzeccagarbugli e Scipioni non ce ne sono ormai più. Ciò non vuol dire che adesso la categoria sia composta solo ed esclusivamente da santissimi martiri ma che oggi gli obblighi dell’avvocato e i controlli cui è sottoposto sono assai più stringenti che in passato. Senza contare che anche il livello culturale della clientela non è più quello della Lombardia rurale del XVII secolo o della Sicilia della metà dell’ottocento e, oggi, per un avvocato, intontire qualcuno con le proprie chiacchiere è certamente molto più difficile.
Eppure lo stereotipo dell’avvocato italiano è ancora l’Azzeccagarbugli e troppo spesso i clienti si aspettano che il professionista trovi il latinorum che gli eviti le conseguenze del loro agire, che ingarbugli i fatti per ingannare giudice e controparte, oppure che si accordi con il collega avversario in danno del proprio cliente.
Spesso e volentieri anche i magistrati sono ancora influenzati dalle letture scolastiche e di fronte ad un qualsiasi avvocato assecondano un pregiudizio ormai atavico e restano guardinghi e sospettosi.
Da parte nostra, di noi avvocati contemporanei si intende, ormai più nessuno sceglie la professione attratto dalla figura dell’Azzeccagarbugli perchè tutti si rispecchiano invece nei tanti altri modelli letterari e cinematografici, altrettanto fantasiosi ma certo più positivi, che nel corso del tempo hanno affiancato l’avvocato manzoniano e quello verghiano. Se poi c’è ancora qualcuno che pensa di poter ricavare ingenti guadagni dalle disgrazie altrui e di ottenere, con l’iscrizione all’ordine, una sorta di licenza per fregare impunemente il prossimo, bastano pochi giorni di pratica per cambiare completamente la prospettiva.
Insomma: è ora di dire basta agli Azzeccagarbugli e agli Scipioni! Per lo meno si imponga alle nuove edizioni dei due romanzi l’apposizione di una formula di avvertimento per i lettori più giovani e impressionabili: gli avvocati descritti in quest’opera sono frutto di invenzione e del pregiudizio personale del suo autore e non rappresentano neppure lontanamente alcun professionista realmente esistito.