Già Cicerone racconta che a Segesta vi era una statua bronzea di Diana, altissima e maestosa, che raffigurava la dea con un lungo mantello, eppure con il portamento di una vergine; nella mano sinistra impugnava l’arco e nella destra una fiaccola accesa, mentre dalla spalla le pendeva la faretra con le frecce. Era oggetto di un culto particolare, antichissimo, soprattutto da parte delle donne, perchè si riteva proteggesse il matrimonio, la famiglia e il parto. Fino a quando Verre, il corrotto governatore della Sicilia, non ci posò i suoi avidi occhi sopra e ordinò ai magistrati cittadini di rimuoverla e di consegnargliela. Nessuno, però, né romani né greci, osava toccarla, tanta era la reverenza che la circondava, e l’appalto per la rimozione, alla fine, venne affidato a operai stranieri. La statua venne trasportata fuori dalla città tra i gemiti e il cordoglio di tutti; le donne di Segesta la cospargevano di unguenti profumati, la coprivano di fiori, bruciavano incenso ed essenze, scortandola sino alle porte della città.
Culti simili risalgono certamente a tempi assai più remoti, addirittura alla nascita stessa dell’uomo: si pensi alle tante veneri paleolitiche, ritrovate in ogni parte del mondo, le più antiche delle quali sono state datate tra 500.000 e 300.000 anni fa, accomunate tutte dalle medesime caratteristiche (genitali esageratamente pronunciati, steatopigia, colorazione rossa), che rimandano evidentemente al ciclo perpetuo della vita e al mistero della gravidanza.
Un vero e proprio archetipo universale che, dalla venerazione primordiale della Grande Madre sopravvive in tutte le civiltà che, in un modo o nell’altro, attribuiscono alla maternità un valore divino: da Ishtar in Mesopotamia ad Iside tra gli Egizi, che spesso la raffiguravano con il figlio Horus in braccio; ma anche Pachamama nella mitologia andina e Kunapipi, venerata dagli aborigeni australiani.
Un culto che, mutatis mutandi, si perpetua sino ai giorni nostri, attraverso la venerazione della Vergine Maria, come testimoniato anche da un altro avvocato, Piero Calamandrei, rendendo omaggio a “il più bel quadro di Pier della Francesca, la Madonna del Parto, la celebrazione più solenne e più austera della gloria della maternità”.
Si tratta di un affresco dipinto in soli sette giorni nella seconda metà del XV secolo sulla parete di fondo della Chiesa di Santa Maria di Momentana, poco fuori Monterchi, in provincia di Arezzo.
Se si escludono i due angeli che aprono il sipario, la Madonna che si affaccia dal palcoscenico dell’opera non ha nulla di divino. Quella che appare è una giovane donna con il pancione; una mano poggia su di un fianco, quasi a voler dar sollievo al mal di schiena dovuto al peso in più da sopportare, assolutamente reale e terreno; l’altra accarezza il ventre, in un gesto naturale di protezione. Il volto, pallido e ieratico, è sofferente, come se la nausea, appena passata, fosse già pronta per un nuovo attacco, eppure sorridente, radioso, orgoglioso. L’aureola è appena accennata e le vesti, umili ma eleganti, non hanno nulla di regale e non riescono neppure a trattenere il gonfiore del ventre; sono invece pronte a schiudersi, come la tenda che svela la Madonna, in un gioco prospettico che dà il senso del ciclo perpetuo della nascita, della vita e della morte.
Piero della Francesca era nativo di San Sepolcro ma pare che la madre fosse proprio di Monterchi ed è suggestivo pensare che l’artista abbia dedicato l’opera alla sua mamma, immaginandone l’aspetto mentre era in sua attesa.
Il soggetto non è affatto casuale anche per altri motivi: la chiesa di Santa Maria di Momentana sorge, anzi sorgeva come si vedrà meglio tra poco, alle pendici di una collina conosciuta con il toponimo di Montione, derivato da Mons Junonis, Monte Giunone, luogo già legato in antico a culti di fertilità; la chiesa, poi, anche prima che Piero della Francesca vi lasciasse il segno, era già dedicata alla Vergine; anzi, quando, nel 1911, l’affresco venne staccato dal muro per preservarlo dalla rovina, si scoprì che Piero della Francesca aveva ricoperto con la sua opera un’immagine trecentesca della Madonna del latte.
Ecco dunque che la Chiesa di Santa Maria in Momentana ed il suo affresco erano un riferimento sicuro per le donne desiderose della gravidanza e tutte le vicende che hanno interessato il sito nel corso dei secoli non hanno mai scalfito il loro rapporto identitario. Nel 1785 la chiesa venne parzialmente demolita ed al suo posto si costruì il cimitero ed una piccola cappella dentro la quale si mantenne il muro con l’affresco. Pochi anni dopo il sito venne colpito da un terremoto. Nel 1917 un secondo terremoto, più distruttivo del primo, obbligò il trasferimento temporaneo dell’affresco alla pinacoteca di San Sepolcro ma già nel 1922 fece ritorno alla cappelletta cimiteriale. Infine nel 1956 la cappelletta venne demolita e ricostruita.
Eppure è lo stesso Calamadrei che ricorda come in tempo di guerra capitò che il prof. Salmi dell’Università di Firenze e il dott. Procacci delle Gallerie fiorentine, che in quel periodo battevano le campagne toscane per portare le opere d’arte in salvo dalla cupidigia dei nazisti, giunti in quel di Monterchi per trasferire in luogo più sicuro la Madonna del Parto, si trovarono a fronteggiare le donne del paese che, avendoli scambiati per razziatori fascisti, li cacciarono a bastonate. Così come, pochi anni dopo, fu la volta della Soprintendenza a dover rinunciare all’esposizione della Madonna ad una mostra ad Arezzo, sempre a causa dell’ostilità delle donne di Monterchi.
Come si può facilmente immaginare non sono mancate neppure le dispute legali.
Si comincia nel 1992 quando Diocesi e Comune iniziano a litigare in merito alla proprietà dell’opera ed alla sua miglior collocazione. Il contenzioso civile si definisce con una transazione che riconosce la proprietà al Comune di Monterchi, perchè proprietario del cimitero e della cappelletta ove era custodito l’affresco, e dispone la sua collocazione nel centro del paese, in un edificio scolastico di epoca fascista riadattato appositamente per lo scopo, dotato di adeguata illuminazione e efficaci apparati comunicativi, così da incoraggiare la maggior fruizione dell’opera al pubblico, visto che il cimitero si trovava in campagna e solo i veri conoscitori vi facevano tappa, con conseguente beneficio economico per tutto il borgo.
Con buona pace di culti millenari e inutili superstizioni, destinate per forza di cose a cedere il passo alle ragioni della “fruizione”, “valorizzazione” e dello sfruttamento economico-commerciale dell’opera.
Se non che, tanto il TAR quanto il Consiglio di Stato, recentemente chiamati a decidere la vicenda, riconoscono che la miglior collocazione della Madonna del Parto è la cappelletta cimiteriale ove la visitò per la prima volta Calamandrei e dove è stata custodita fino al 1992, perchè “al di là delle vicende che ne hanno diversificato le sorti in maniera irreversibile, la connotazione devozionale (ovvero la secolare devozione alla Madonna e il connesso culto relativo all’affresco) lega l’affresco al luogo di origine sino al 1992” e “invero rientra nell’interesse culturale giustificante il vincolo anche l’interesse storico dipendente da una tradizione radicata nei secoli e, come nel caso di specie, da una tradizione di devozione risalente nel tempo, recepita e rafforzata dalla realizzazione e dalla secolare localizzazione di un’opera d’arte suggestiva per il valore artistico in sé e per il riecheggiare la tradizione del luogo”.
Bibliografia:
M. T. Cicerone, Il processo di Verre, RCS Libri S.p.a., Milano, 2000.
P. Calamandrei, Un incontro con Piero della Francesca, Edizioni Henry Beyle, Milano, 2015.
F. Federici, Dalla chiesa al museo e ritorno: la storia della Madonna del Parto di Piero della Francesca, in Artribune, 18/04/2022.
L. Lombardi, Il travaglio infinito della «Madonna del parto», in Il giornale dell’arte, 19/04/2022.
T.A.R. Toscana, Sez. III, Sent. 18/05/2021 n. 729.
Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. 03/03/2022 n. 1510.