“Street art”, in italiano “arte di strada” o “arte urbana”, da non confondere con il “writing” e il “graffitismo” che ne sono inclusi ma non lo esauriscono, è un movimento artistico che comprende tutte quelle forme di arte che si manifestano in luoghi pubblici, spesso illegalmente, con tecniche diverse: bombolette spray, adesivi artistici, arte normografica, proiezioni video e sculture.
Alcuni artisti la praticano come forma di critica o denuncia sociale, anche contro la proprietà privata, rivendicando le strade, le piazze e gli immobili abbandonati delle metropoli. Altri utilizzano gli spazi cittadini come luoghi espositivi, al fine di raggiungere un pubblico più vasto di quello che solitamente frequenta i musei e le gallerie.
Un caso particolare è stato quello della mostra a Palazzo Pepoli a Bologna intitolata “Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano”, curata da Fabio Roversi Monaco, Luca Cianaciabilla e Christian Omodeo. L’iniziativa nasceva anche dalla necessità: numerose delle opere in mostra rischiavano di perdersi irrimediabilmente, in parte perchè esposte da lungo tempo alle intemperie e in parte perchè realizzate su immobili destinati alla demolizione. Così che la mostra è stata anche l’occasione per dibattere sulla loro conservazione, fruizione e restauro.
L’operazione, tuttavia, non ha convinto Blu, street artist italiano tra i più noti, che, non appena saputo che alcune sue opere erano state asportate dai luoghi di origine e musealizzate, ha cancellato con vernice grigia gli altri suoi murales bolognesi, manifestando così il proprio dissenso alla loro esposizione in luoghi chiusi.
Quella di Blu è la posizione, dura e pura, di chi ritiene che la street art appartenga alla città e ne debba condividere i destini, negando, dogmaticamente, ogni intervento conservativo e, soprattutto, ogni sua esposizione in luoghi diversi da quelli per i quali l’artista l’ha progettata e realizzata.
Ecco che, al di là delle opinioni di ciascuno sul pregio artistico di tali opere, i fatti di Bologna interessano anche dal punto di vista squisitamente giuridico, stimolando la riflessione sull’appartenenza delle opere d’arte.
Evidentemente Blu ritiene che le sue opere, anche quelle realizzate illegalmente sulla proprietà altrui, gli appartengano e che ne possa disporre come meglio crede, financo distruggendole.
Fabio Roversi Monaco, invece, sostiene che “quando un’opera è stata fatta dentro o su una proprietà altrui l’artista di strada esprime sì il suo antagonismo ma sa perfettamente che quello spazio non è suo ma di proprietà di chi lo possiede”. Per il curatore della mostra, insomma, il proprietario del muro o della serranda è proprietario anche dell’opera ivi realizzata e, una volta ottenuto il suo assenso all’asportazione, l’autore dell’opera non ha più alcun diritto di opporsi.
Più complessa l’opinione dell’altro curatore della mostra, Christian Omodeo, secondo il quale “rispetto al diritto d’autore, non me ne frega niente. Se espongo un’opera, perché considero che serva a portare avanti un discorso o a generare un dibattito lo faccio, esattamente come un dj che sceglie un sample per creare un pezzo totalmente nuovo. Mi aspetto di essere giudicato per quello che ho creato e non per come ho trattato i sample selezionati. Se poi uno o più artisti sentiranno il bisogno di fare ricorso a un quadro giuridico sclerotizzato come il diritto d’autore, valuterò il da farsi, ma la mia posizione non cambierà: un artista che rifiuta che la sua opera possa essere usata, trasformata, distrutta, conservata o deturpata è e sarà sempre ai miei occhi come una multinazionale che tutela i propri prodotti. Personalmente, ho altre priorità, come affermare che non ci vedo nulla di male a prendere dei muri di proprietà di un privato e trasformarli in bene comune”.
In effetti l’art. 936 cod. civ. dispone che quando le opere sono state fatte da un terzo con suoi materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle. Se così è hanno ragione i curatori perchè Blu ha realizzato le proprie opere, probabilmente con materiale proprio, ma certamente sui muri altrui. Quindi, per effetto dell’accessione, l’opera d’arte appartiene al proprietario del muro.
Deve però considerarsi che l’”opera” di cui si tratta non è una costruzione, una piantagione o un impianto qualunque, ma è il frutto dell’ingegno di carattere creativo del suo autore. Sono perciò applicabili alla fattispecie anche gli artt. 2577 cod. civ. e 20 l.a. secondo i quali l’autore ha il diritto esclusivo di pubblicare l’opera e di utilizzarla economicamente in ogni forma e modo e, anche dopo il trasferimento dei diritti di sfruttamento economico, mantiene sempre quelli c.d. morali che gli consentono di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione dell’opera stessa che possa essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione.
Insomma, ha ragione Blu che, ritenendo che la mostra gli fosse pregiudizievole, si è opposto; il metodo utilizzato per far valere le proprie ragioni, tuttavia, complica ulteriormente la questione, anche perchè pare che uno dei murales cancellati per protesta fosse stato commissionato e pagato al suo autore dal quartiere Savena nel 2007. Se, invece, avesse utilizzato correttamente gli strumenti giuridici a sua disposizione, avrebbe potuto impedire l’esibizione delle sue opere e ottenere il risarcimento dei danni.
Non può però negarsi che le opinioni dei curatori, almeno de iure condendo, non contengano una parte di verità: sull’importanza dell’attività di curatela, sulla fruizione, diffusione, conservazione e restauro delle opere d’arte. In prospettiva, una compressione del diritto di proprietà e di quello d’autore, nelle sue componenti economica e morale, può essere accettabile, e persino auspicabile, se finalizzata alla maggior diffusione dell’arte, così che sempre più fruitori possano goderne. Purchè tale compressione sia accompagnata da una più intensa divulgazione, quanto mai necessaria, di un’altra grande opera dell’ingegno umano: il diritto.