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L’avvocato primaverile

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avvocato al computer. Articolo avvocato primaverile.

Settecento Avvocati Suonavano Settecento Ocarine.
È uno dei tanti giochi che Gianni Rodari ci ha insegnato: da una parola comune, la prima che ci viene in mente, il nome del primo oggetto su cui cade il nostro sguardo, come ad esempio “sasso”, ricavare una storia, utilizzando le lettere che la compongono. Non importa se abbia un senso compiuto; meglio: non importa se abbia un senso razionale, perchè nella vita non trionfa sempre la ragione ma è sempre un confronto tra ragione e sentimento, tra realtà e fantasia.
Che, poi, un corteo di settecento avvocati, tutti allineati, con le loro toghe svolazzanti e il codice sotto il braccio, che suonano l’ocarina, non è un’immagine da buttar via.
Come quella di un avvocato a molla. Una molla nascosta, che nessuno può vedere, perchè se la Corte lo sapesse, se la molla, tutt’a un tratto, scattasse, sarebbero guai. Solo la sua bambina sa dov’è la molla e non appena rincasa, che il cliente sia stato assolto o condannato, l’avvocato fa un salto di qua e uno di là, e la gente che passa e sente ridere allegramente sa che quella è la casa della felicità.

La felicità e la sua ricerca, attraverso le piccole cose: la risata di un bambino, una bella giornata di primavera, un gioco di parole senza senso ma divertente. Ecco che la fantasia, al pari della ragione, diviene strumento di comprensione del reale, forza rivoluzionaria che cambia il mondo. Chi non la esercita, non ne impara la grammatica, è destinato all’infelicità, intesa come incomprensione della realtà. In questo è il confronto quotidiano tra ragione e passione: che l’una è al servizio dell’altra, che alcune cose si possono apprendere con la ragione, altre solo con la fantasia.
Si scopre così che, oltre alle filastrocche per bambini, ai racconti surreali, ai paradossi, c’è anche il Rodari per adulti che in parte si sovrappone alla produzione per l’infanzia, lanciando messaggi universali, validi per grandi e piccoli, e in parte denuncia le storture della modernità. Una denuncia sempre delicata e ironica ma, proprio per questo, ancor più potente, che colpisce l’eccessiva burocrazia, l’autoreferenzialità della politica, il supersfruttamento del lavoro, l’arbitrio della legge.

Guardiamo al processo al nipote: è un caso difficile e spinoso dove l’imputato, il nipote appunto, rischia grosso. Il Pubblico Ministero, infatti, assai arcigno, lo accusa di avere gravemente offeso lo zio, scrivendo in un tema in classe: «Lo zio è il padre dei vizi».
Eppure i testimoni sono tutti concordi: il signor zio è un modello di virtú. Non beve, non fuma, non esce la sera, non gioca al totocalcio, non consuma i tacchi delle scarpe, non si asciuga i piedi nell’asciugamano delle mani, non prende il sale con le dita, non si mette le dita nel naso, non ficca il naso negli affari altrui.
Anche per il Giudice, che conosce personalmente lo zio e lo stima come ottima persona, il nipote merita la galera per aver osato calunniare un cittadino così esemplare.

Per fortuna c’è l’avvocato difensore che, con molta scienza e altrettanta fantasia, comprende che l’imputato aveva intenzione di scrivere: «l’ozio è il padre dei vizi», ma che l’apostrofo, forse consigliato dai cattivi compagni, è fuggito dalla penna.
Al Giudice, dunque, non resta che assolvere il nipote, non prima, però, di avergli fatto promettere di fare il possibile per rintracciare il fuggitivo apostrofo e convincerlo a rientrare anche lui sulla retta via.
Oppure nel caso di Arnaldo Modica, impiegato d’ordine di Narni, ingiustamente accusato del furto della cupola di San Pietro ma costretto comunque a riparare a Maracaibo perchè non dispone di un alibi e, anche quando la cupola pare essere tornata al suo posto, sempre che lì non fosse sempre rimasta, teme di essere accusato di complicità, che la sua fuga sembri sospetta e che il codice penale non contenga un solo articolo in grado di trarlo dalla crudele incertezza della sua situazione.

Quand’anche, invece, il codice penale riesce a cucire fermamente gli imputati alla loro sedia, fino ad impedirgli il minimo movimento di difesa, perchè sicuramente colpevoli, è il giudice ad essere inghiottito dallo sguardo umile e senza protesta dei condannati e a sentire che non esistono delinquenti più innocenti di costoro. Ed è così che il giudice M. T. giunge a rassegnare le proprie dimissioni dalla magistratura, da cittadino e, infine, dal consorzio umano, trasformandosi in una sedia a dondolo, perchè, se è vero che, da magistrato dimissionario, non è più responsabile delle sentenze del tribunale, restando uomo rimarrebbe comunque responsabile delle leggi in base alle quali quelle sentenze ogni giorno vengono pronunciate.

Perchè gli unici veri delitti, da punire severamente, sono l’andare in ufficio in una giornata soave, l’oltraggio alla natura, il guardare troppa televisione.
È il caso dell’avvocato Minerviano Marello che acquistò un televisore il 6 giugno del 1957 e da quel giorno al 23 dicembre del 1959 non perdette una sola trasmissione: telequiz, telefilm, telegiornali, balletti, rubriche scientifiche e pubblicitarie, programmi per bambini, per agricoltori, per massaie. Il teleschermo lo ipnotizzava, lo attraeva irresistibilmente, e la sera del 23 dicembre del 1959 lo attrasse al punto che ci cascò dentro tutt’intero. Il giorno dopo, verso le dieci, arrivò il primo cliente e l’avvocato Marello lo ricevette dal teleschermo, gli dettò il testo di un esposto al tribunale, gli fece cercare sugli scaffali un fascicolo della rivista giuridica che gli occorreva, agitandosi perchè quello, poco esperto, durava fatica a trovarlo, e gli fece lasciare i soldi sulla scrivania.

A ben guardare anche gli avvocati e i magistrati di Rodari, come gli altri suoi personaggi, sono tutti immalinconiti e immiseriti dal “tran tran” quotidiano fatto di casa-lavoro-famiglia-televisione, finchè, all’improvviso, per caso, accade qualcosa fuori dall’ordinario, una molla che scatta, un apostrofo che fugge, uno sguardo che attrae, e la vita prende un’altra dimensione. Ed è come se, finalmente, si ponessero di fronte ad uno specchio e, con un moto di orgoglio, recuperassero i propri valori fondamentali e, con essi, la dignità di esseri umani.
Così, quando il primo giorno di primavera il filobus n. 75 smette di rispondere ai comandi dell’autista e, chissà come, devia dal suo percorso prestabilito per fermarsi sulle soglie di un boschetto fresco e profumato, l’avvocato, che poco prima aveva minacciato di fare causa all’azienda se non fosse arrivato puntuale all’udienza, è poi il primo ad andare per violette e, a chi gli domanda se sia civilista o penalista, così risponde: “Diritto primaverile. Tutti assolti con lode perché il fatto costituisce reato solo quando non avviene. Il fatto, cioè la felicità”.

Nota:
di Gianni Rodari, piemontese nato ad Omegna, sul lago d’Orta, ricorre quest’anno il centenario della nascista, il quarantennale della morte e il cinquantenario della vittoria, unico italiano per la narrativa, del prestigioso Premio Hans Christian Andersen, il nobel della letteratura per l’infanzia.
La sua produzione è sterminata e molte storie, a volte con alcune modifiche, compaiono ora qui, ora lì. Il Filobus n. 75, ad esempio, si trova in Favole al telefono (Einaudi, Torino, 1962) e, con modifiche, in Il giudice a dondolo (Einaudi, Torino, 2013), ove compare anche Il teledramma dell’avv. Minerviano Marello, Il furto del cupolone e il racconto che intitola la raccolta. Il processo al nipote è in Favole al telefono. Il gioco del sasso è tratto da Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie (Einaudi, Torino, 1973).
La descrizione dello stile rodariano è di Mario Di Rienzo, dalla sua prefazione a Il giudice a dondolo.
L’avvocato a molla è una filastrocca di Gianni Rodari trovata in rete, senza indicazioni dell’opera da cui è tratta.

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